SerieTV: Vikings #3

Quando si dice “il peso delle responsabilità“.
Nel momento in cui si evolve, si abbracciano una serie di complicazioni che possono e rendono il percorso più difficile. E’ normale, è il motivo per il quale si cresce: diventare forti e portare sulle proprie spalle pesi sempre più grandi. E non per masochismo, ma per diventare la versione migliore di noi stessi. E’ questo il senso ultimo: l’evoluzione.
Chi si sporge in avanti corre il rischio di cadere e farsi male, ma anche di raggiungere obbiettivi straordinari che restando bloccati nella posizione di partenza non si sarebbero mai potuti neanche accarezzare. Questo avviene di continuo, in una sorta di circolo vizioso che non ha mai fine e che l’uomo difficilmente riesce a comprendere, in quanto incapace di concepire l’infinito: la mente umana non riesce a quantificare un valore che non ha valore, è scienza. Ecco il motivo per cui non si giunge mai alla maturità, ma ci si può “limitare” ad essere oggi la versione migliore di ciò che si era ieri.

Come si evince dal trailer, si va avanti. Si cresce.
Vikings, serie tv andata in onda su History Channel tra il 2013 e il 2021 e trasmessa in Italia da Tim Vision, Rai4 Amazon Prime, arriva alla terza stagione e cambia pelle. Parliamo di un prodotto assai complesso, perché all’attivo ci sono 6 stagioni da 10 episodi l’una, con la quarta, la quinta e la sesta che si sdoppiano in A e B; per un totale di 89 episodi da 45 minuti.

Nel momento in cui la serie ha mostrato le sue qualità, in termini di intreccio narrativo e messa in scena, si è sentito il bisogno di cambiare; o meglio, di evolvere. Perché oltre le razzie, che erano il miglior mezzo di sostentamento offerto dall’epoca, e al di là delle battaglie, ossia lo svago prediletto da un popolo per certi versi ancora “barbaro”, c’è la politica.
Il termine “politica” viene dal greco ed è composto da “polis” e “techne“, rispettivamente “città-stato” e “arte/tecnica“: in poche parole, la politica è l’arte e/o la tecnica utile alla gestione di un governo. Ed è proprio questo ciò che accade nella terza stagione di Vikings: si abbandonano (parzialmente) le asce e gli scudi e si abbracciano le arti retoriche e conciliatorie. In una sorta di rivisitazione di The Sopranos, ma con barbe sporche e armature di cuoio, assistiamo a un cambio di scenario naturale e non repentino, che annuncia l’ingresso nell’età adulta. Una maturità, quella di oggi, di sicuro maggiore di quella di ieri.

La terza stagione si apre con una certezza: Ragnar Lothebrok è re. Non che lui lo volesse o che ambisse a diventare sovrano del nord, ma il tradimento e l’uccisione di re Horik (per mano dello stesso Ragnar) hanno fatto sì che corona e spada passassero di proprietario e giungessero sulla testa e tra le mani dell’ex contadino di Kattegat.
Dal momento in cui lo jarl Haraldson viene meno, l’aspetto politico di Vikings viene messo da parte per lasciare spazio a questioni più immediate e caratteristiche: le lotte, le razzie, le violenze e le abitudini del popolo norreno. Eppure, sul finire della seconda stagione, e più precisamente nel momento in cui entrano in scena i regnanti d’Inghilterra e del nord, la serie si appresta a convertire parte delle proprie trame, spostandole dal campo di battaglia alle sale diplomatiche.
A farne le spese è il personaggio di Ragnar Lothbrok, che –da guerriero visionario e curioso- non sa come muoversi in un terreno così diverso dalla terra fertile di Kattegat. Sono lontani i giorni in cui si affidava a una rudimentale bussola per raggiungere le coste inglesi, come ormai vaghi sono i ricordi della vita con Lagertha e i figli, Bjorn e Gyda. Oggi, Lothbrok ha una corona sulla testa, ma sotto c’è ben poca voglia di portarne il peso: gli sguardi intensi e vivi lasciano spazio a occhiate sfuggenti, espressioni pensierose e a poche parole, a volte giuste e a volte sbagliate. Una decadenza così rapida non la si vedeva dalla quinta stagione di The Walking Dead, quando Rick Grimes ha smesso di essere l’eroe intelligente e ha iniziato ad essere l’eroe, uno dei tanti. Lothbrok, almeno, non cade a picco: lo straniamento del personaggio inizia con l’incoronazione e va avanti in maniera lenta, progressiva, sfiancante perché percepita dallo spettatore in tutta la sua straziante incontrovertibilità. Il protagonista di Vikings inizia così a sentirsi distante da tutto e da tutti e chiuso nel bozzolo, riflette su ciò che è stato: il matrimonio con la principessa Aslaug ha permesso alla stirpe dei Lothbrok di continuare, attraverso Ubbe, Hvitserk, Sigurd e il piccolo Ivar Senz’ossa, ma è proprio la nascita del figlio storpio a ricordargli cosa ha barattato in cambio della prole.

Insieme a Ragnar, anche il personaggio di Rollo e Floki entrano in crisi, per lasciare il posto a una Lagertha che si conferma, ma con maggiore forza; a Bjorn, Judith e all’inaspettata (e inaspettabile) Gisla.
Il guerriero Rollo finisce per diventare un jolly in uso a norreni, inglesi e (udite udite) francesi e questo fa capire quanto poco lo show punti su di lui: un personaggio dalle enormi potenzialità che finisce addomesticato da buoni sentimenti e giochi di potere, in una sorta di buona uscita positivissima che sa molto di contentino.
Sorte diversa per Floki, che da giullare, genio e ingegnere si trasforma in un fanatico religioso e pure assassino. Tutto fa pensare a un imminente turn heel, ma nel momento in cui Vikings avrebbe potuto dare un impulso originale alla trama, il coraggio viene meno e tutto torna nei ranghi.
Con una strana danza che lascia tutti insoddisfatti, la serie fa capire allo spettatore che la storia è una storia, la quale non necessita di lieto fine o atroce tragedia per avere il diritto di essere raccontata: alcuni si defilano senza aver concluso, altri lasciano il segno e altri ancora svaniscono, come accade quotidianamente a tanti di noi. Non c’è alcun racconto eroico in Vikins, ma delle vicende che mostrano il lato positivo e negativo di qualsiasi cosa; come di una corona, di un amico o di un amore.

La trama della terza stagione di Vikings si arrocca nelle stanze della diplomazia.
Il regno di Mercia è conteso dalla principessa Kwenthrith e i suoi parenti e visti gli interessi di re Aelle e re Ecbert, suoi confinanti, i due re si avvalgono dell’aiuto dei norreni per riportare pace nella “terra di mezzo”. A Ragnar vengono promesse terre fertili da coltivare e insieme con Rollo e lo jarl Lagertha, il re del nord accetta.
Ma c’è qualcosa di più grande e ricco dell’Inghilterra all’orizzonte.
Dopo la morte del monaco cristiano Athelstan, il personaggio di Ragnar cade in uno sconforto profondo, intimo, che sembra rasentare la follia e da questo stato, nasce l’idea dell’attacco a Parigi. Peccato che la città sia una roccaforte inespugnabile, che diventa presto la prima, vera e cocente sconfitta; di Ragnar e di Vikings. Di Lothbrok in quanto punto inevitabile di non ritorno emotivo e psicologico e del telefilm stesso, che varca una soglia che sembra portare alla fine. Di sicuro, quella di Ragnar.

Sara C.

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