Io scrivo: Lettera 286

Lettera 286.
Anno 1899, giugno, giorno… credo di avere perso il conto. Non so, chiederò.

Caro Jeffrey,
caro e amato compagno di inizio vita.
Oggi c’è il sole e un gran vento scompiglia le chiome degli olmi che troneggiano alla fine del terreno. Il loro volteggiare notturno ha qualcosa di quieto e piacevole, che quasi rasserena l’anima: infatti, quando le folate riempiono il silenzio della sera e interrompono i riflessi della luna sulla mia finestra, trattengo il respiro per ascoltare ciò che credo essere il naturale suono della pace.
A causa delle alte e insolite temperature, la recinzione si è ormai rinsecchita e qualche animale selvatico, se non uno dei cani della fattoria oltre la collina, deve aver distrutto buona parte dello steccato del lato nord. Frank, il custode, provvederà nel fine settimana.
Se lasciata all’aria per la passeggiata del mattino, la mia pelle brucia come una vecchia pentolaccia annerita e sotto gli occhi arrossati dalle polveri, le mie guance si colorano di un insolito e imbarazzante rosso fuoco: a differenza di qui, il sole inglese è sempre stato più indulgente con il chiarore femminile e perciò, fa sempre uno strano effetto vedere il mio riflesso sbuffante e accaldato al di là dello specchio.

Ho scoperto di essere molto attenta ai particolari ultimamente e malgrado le frequenti dimenticanze a cui mi espone la malattia, non ricordo di avere ricevuto il permesso di stare fuori di recente. Eppure, i miei zigomi sembrano due mele mature e non è bastata la cipria a coprire quell’imbarazzante velatura rossastra.

Purtroppo, non ricordo il momento in cui ho goduto dell’ultimo sole e con esso, non tengo a mente neanche l’ultimo giorno di piena lucidità. Le crisi sono più frequenti, l’intensità della loro violenza mi dicono sia notevolmente aumentata e malgrado le forti dosi di tranquillante, il mio io malato continua a perseguitare ogni altra paziente del Santa Clara. Non ho memoria delle azioni e delle parole dell’assassino che sta uccidendo la mia sanità, ma riconosco che esso staziona in maniera silente qui con me, anche ora. Forse, egli è sempre stato presente, fin dall’infanzia, spettatore delle mie debolezze, fruitore delle mie fragilità e solerte sfruttatore delle mie disgrazie. D’altronde, qualsiasi perdita necessita di essere consolata da qualcuno o da qualcosa ed io, di perdite, ne ho avute ben due.
Non rinnego la vostra vicinanza, amato Jeffrey, bensì, incolpo la crudeltà della bestia che ho dentro: vigliacca al punto da prolificare in me altre fragilità e distorta fino a separare me da voi e poi, me da me. È innegabile quanto ciò mi abbia allontanata dall’immagine di vostra promessa sposa ed è impensabile credere che oggi, a distanza di due estati dalla mia entrata in istituto, voi possiate ancora pensare a me: eppure lo fate ancora, con le vostre gradite visite sempre più inoltrate, ma non è questo il modo in cui vorrebbe sentirsi una futura moglie.
Come detto, nei momenti di maggiore lucidità, ho scoperto di possedere un’insolita perspicacia e in occasione della vostra ultima visita, tenendovi la mano con l’unica libera dai legacci, ho notato un’insolita piegatura della pelle, in prossimità della base dell’anulare sinistro. Dopo essermi assicurata della vostra salute, ero decisa ad amare di voi anche quell’insolita imperfezione, ma solo dopo ore dalla vostra ripartenza ho capito. E non ho capito il solo perché della forma innaturale delle vostre dita, da sempre lisce e curate, ma si è rivelato anche il motivo dello sguardo distratto e imbarazzato che portavate con voi.
Negli ultimi due anni, ho avuto molte occasioni per capire la sgradevolezza emanata dalla mia condizione: ho toccato il dolore dato dal rigetto, dall’allontanamento, dall’emarginazione, ma mai avrei immaginato di sentire il brivido generato dal vedere tutto ciò nei vostri occhi, che commiseranti guardavano i miei. Non vi sarà per me imbarazzo maggiore di questo, nessuna vergogna superiore al sentire l’amore tramutarsi in compassione, il desiderio affievolirsi in affetto, la fedeltà trasformarsi in pena. Il mio orgoglio ne ha risentito, ma a pagarne caro prezzo è stata la mia identità di amata, che da tale è diventata ricordo sbiadito e vittima di una violenza invalidante perpetrata da chi contende a me la mia stessa libertà.

Non abbiate pena di me, Jeffrey, ed io prometto che non avrò rancore per voi. Anzi, continuerò ad amarvi come ho sempre fatto e vi dirò di più: vi chiedo di non dimenticare le nostre risate, le nostre corse sotto la pioggia, i nostri balli, le nostre passeggiate mano nella mano, le nostre speranze per un futuro migliore e insieme.
Non dimenticate nulla, non dimenticatevi della donna che avete amato: bensì, dimenticate il suo esistere. Ricordatela come un dolce sogno, perché ella non c’è più, incapace di convivere con il dolore di essere compatita dall’uomo che avrebbe solo dovuto amarla.

Per sempre vostra, Joanne“.

– Sara C. 

Img: Miles Johnston

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