SerieTV: Vikings #4b

Bisogna saper lasciare andare: questo è l’insegnamento di questi ultimi periodi. Accettare e accantonare, mettere in una scatola e seppellire in fondo, non basta: bisogna saper lasciare andare. A volte, ci si aggrappa a persone, cose e sentimenti così forte da restare incatenati e come conseguenza più ovvia, si finisce con l’andare a fondo. Alcuni eventi, così come alcuni esseri umani o emozioni, hanno il potere di legarci a loro e nel momento in cui naufragano, naufraghiamo anche noi.
Il punto è che bisogna tornare a riva, riemergere e riprendere il viaggio e per fare ciò, c’è la necessità di comprendere i motivi che hanno portato quel legame a nascere, crescere e morire. Bisogna accettare l’esito, processarlo e poi evolvere, per poter andare avanti.
In parole povere: bisogna saper lasciare andare.

Contiene spoiler.

Tutto finisce, sia il bene che il male. Nonostante alcuni siano convinti che la morte sia prematura sempre, perché non ne hanno mai abbastanza della vita, per altri invece, la fine è soltanto una delle tante tappe dell’esistenza: l’ultima. Nei tarocchi, l’arcano numero 13 è rappresentato dalla Morte e ogni volta che tale carta fa capolino in qualche stesa, tutti diventano cupi e preoccupati. La verità è che quell’arcano in particolare racconta una verità inoppugnabile, ossia, che arrivati alla fine ci si deve sempre preparare per un nuovo inizio.
E’ ciò che accade alla seconda parte della quarta stagione di Vikings, serie tv andata in onda su History Channel tra il 2013 e il 2021 e trasmessa in Italia da Tim VisionRai4 Amazon Prime. Ricordiamo che il telefilm ha all’attivo 6 stagioni da 10 episodi l’una, con quarta, la quinta e la sesta che si sdoppiano in A e B; per un totale di 89 episodi da 45 minuti.
Ogni inizio include una fine e questo, i produttori di Vikings lo sapevano già. Anche lo spettatore lo aveva percepito, probabilmente dalla morte del monaco Athelstan (George Blagden), ucciso da Floki (Gustaf Skarsgård) nel corso della terza stagione. Da quel momento, è iniziata una lenta discesa all’inferno, soprattutto per Ragnar Lothbrok (Travis Fimmel), unico vero mattatore della serie e trave portante di una struttura fatta di personaggi orpello dei quale -ormai- si può fare a meno. L’ardore delle razzie in Inghilterra, gli amori negati e le lotte per il potere non fanno più parte di Vikings, che da racconto d’avventura si è lentamente trasformato in un racconto di politica, retorica e strategia. Eppure, anche questo “nuovo” corso giunge al termine, ma non si tratta di una morte prematura e improvvisa, ma di un’estinzione ponderata, naturale e forse, anche fin troppo trascinata.
Vikings deve buona parte del proprio seguito al suo protagonista, Ragnar Lothbrok, che nel corso di quattro stagioni ha catalizzato l’attenzione e l’affetto dello spettatore, il quale lo ha appoggiato nella traversata verso l’Inghilterra, lo sostenuto contro lo jarl Haraldson (Gabriel Byrne), lo ha criticato nella scelta di abbandonare Lagertha (Katheryn Winnick) e lo ha consolato nel momento in cui, orfano visionario, prevedeva la propria morte dopo la brutale fine riservata al migliore amico, Athelstan. Insomma, dopo l’uccisione del monaco, il personaggio di Lothbrok ha raccontato una storia di sofferenza e smarrimento e da qui, dal sentirsi persi, il naufragio di Parigi, la dipendenza dai medicinali e la sconfitta; quella vera, intima e ragionata, che poco c’entra con la ritirata in quel della Senna.
Finalmente, Ragnar trova pace. Ma prima di congedarsi, rappresentando un personaggio imperfetto (e umano) fino alla fine, il protagonista di Vikings cede lo scettro di mattatore unico dello show a colui che mai nessuno si sarebbe aspettato. A significare che, malgrado tutto e nonostante Ragnar, c’è molto altro da raccontare.

La lenta agonia della penultima stagione si protrae in maniera straziante per tutta la quinta serie, che però giunge come una folata d’aria fresca in una giornata di primavera inoltrata. Il motivo? I figli di Ragnar. Detta così può sembrare una banalità da sequel, ma storicamente, i figli di Ragnar Lothbrok diedero vita a vicende degne di essere raccontate. Parliamo di Bjorn la corazza (Alexander Ludwig), Ubbe (Jordan Patrick Smith; Unbroken, 2012; h2O 2007/2010; Lovecraft Country – La terra dei demoni, 2020), Hvitserk (Marco Ilsø), Sigurd (David Lindström) e Ivar Senz’ossa (Alex Høgh; Outsider, 2012; Big Hero 6, 2014).

Nonostante le premesse siano buone, la serie procede con il freno a mano tirato e ciò è dovuto alla presenza (ancora) di Ragnar, Lagertha, Floki e di tutti quei personaggi che fino alla scorsa stagione rappresentavano il focus delle vicende. Insomma, è finito un ciclo e lo spettatore lo sa, lo sente.
Le trame che riguardano Lagertha, che purtroppo non sono mai state all’altezza della complessità e della bellezza del personaggio, vengono messe da parte e la guerriera si concentra finalmente sul suo unico vero obiettivo: Aslaug. Mentre le razzie in Inghilterra e l’assalto a Parigi erano piani di Ragnar, uomo per cui Lagertha prova un amore profondo ma inspiegabile in quanto non più corrisposto, l’attacco a Kattegat è un’evoluzione fortemente voluta dall’ex regina. Questa sembra svegliarsi da un letargo emotivo durato ben due stagioni, dove ha fatto di tutto meno che l’unica cosa che davvero doveva premere al suo personaggio: vendicarsi di Aslaug (Alyssa Sutherland). E ci riesce, dando vita a una serie di episodi interessanti e dinamici, come non si vedeva da tempo in Vikings. Inoltre, in maniera parzialmente consapevole, Lagertha decide di conquistare Kattegat in barba ai figli di Ragnar: Ubbe e Hvitserk in primis, che da questa seconda parte della quarta stagione ne escono con tutte le ossa rotte, per loro stessi demeriti. L’ex regina del nord diventa finalmente il personaggio forte, deciso e soprattutto, libero che aveva illuso di poter diventare, peccato sia un onorevole canto del cigno: infatti, dopo aver compiuto la propria impresa personale, Lagertha torna nell’anonimato, in compagnia degli spettri di Rollo e Floki, che ormai è andato alla deriva.
Bjorn, colui che sembra essere destinato a ereditare il ruolo del padre, funge da eroe dei due mondi: presente come adulto nella prima realtà di Vikings e presente ora, in questo futuro concretizzatosi in fretta come per magia. Il personaggio è stanco, come i veterani, e la caratterizzazione scelta dagli autori non gli rende giustizia. Lo spettatore si aspettava un Ragnar 2.0, dotato di qualità come umanità e onorabilità in quantità maggiori rispetto al precedente protagonista, ma tutto ciò non arriva e la serie finisce per mostrare un vichingo… banale. Banale perché uguale a ciò che già è stato mostrato finora, quindi ci si ritrova con una copia fedele del primo Ragnar Lothbrok e non si sa cosa farci.
In compenso, per fortuna, l’inaspettata crescita del personaggio di Ivar Senz’ossa è qualcosa di straordinario: è il vero mattatore presente e futuro dello show e lo spettatore lo percepisce fin dalle prime scene, nelle quali Alex Høgh da prova di essere perfetto per la parte. L’evoluzione fisica, di movimento, nello sguardo, sono questi i dettagli che impressionano uno spettatore diviso tra il dispiacere profondo per aver perso Bjorn e l’emozione, quella vera, di aver trovato Ivar: perché mantenendo ben chiara la netta divisione tra male e bene (che poi viene addolcita dalle innumerevoli sfumature di grigio), lo spettatore di Vikings riconosce in Ivar l’unica e ultima chiamata prima della deriva.

Finalmente, Vikings inizia a sfoltire l’innumerevole quantità di sotto trame aperte in passato, per giungere così alla conclusione di un primo ciclo godibile, ma fin troppo trascinato e agonizzante sulla fine. Quella di Ragnar, di conclusione, si protrae per tante, troppe puntate, ma gli unici pro di questa travagliata evoluzione sono la liberatoria uscita di scena di un personaggio diventato problematico e ingombrante, la straordinaria maturazione (e preparazione) di Ivar e la caduta drammatica, accorata e furba di re Ecbert.
Dopo la fuga, Lothbrok torna a Kattegat con l’intenzione di redimersi per aver mentito riguardo l’accampamento nel Wessex e perciò chiede navi e uomini per raggiungere di nuovo l’Inghilterra: nessuno è disposto a seguirlo, tranne Ivar, che coglie l’occasione della traversata per reagire alla propria disabilità e per conoscere il proprio padre, che da sempre l’aveva rinnegato. Ecbert consegna i due norreni a re Aelle, che condanna Ragnar a morte e questa evoluzione segna in maniera profonda sia Ivar che lo stesso Ecbert: la natura malvagia del primo trova la forza per emergere dal dolore della perdita, mentre il secondo si confronta con Lothbrok in un faccia a faccia drammatico, sincero e profondamente nostalgico, confermando la straordinaria bellezza del suo personaggio.
Nel frattempo, mentre il dramma di Ragnar trova finalmente conclusione, Bjorn e la vecchia guardia mandano avanti una trama di cui nessuno sentiva il bisogno, che scimmiotta i racconti delle vecchie razzie del Wessex (ma in salsa orientale). Lo spettatore congeda Rollo, ormai damerino alla corte di Francia, ma anche Helga, che ormai era perduta nella disperazione di madre orfana della figlia. Per certi versi, si perdono i contatti anche con Floki, il cui personaggio è lo spettro sbiadito e inspiegabile di quello che fu.
Mentre cresce il minutaggio dedicato ad Harald Bellachioma (Peter Franzén), che nella storia è stato il primo vero re di Norvegia e nella serie diventa sempre più importante negli sviluppi della trama centrale, a Kattegat va in scena la vendetta di Lagertha, che si autocondanna a morte. E’ ovvio, infatti, che l’esecuzione di Aslaug scatena l’indignazione dei figli di Ragnar e della principessa del nord; primo fra tutti, l’ormai temibile Ivar Senz’ossa.

In conclusione, la serie giunge forse fin troppo tardi, ma fortunatamente conclude un racconto che si protraeva da troppo tempo. Malgrado i rinforzi non siano (attualmente) convincenti al punto da rappresentare una degna discendenza, Ubbe, Hvitserk, Sigurd e Ivar si candidano per essere coloro i quali faranno il bello e il cattivo tempo, aprendo un capitolo nuovo di Vikings (forse, non all’altezza del primo).

Sara C.

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