SerieTV: The Missing

Alcuni dicono sia meglio lasciar andare e nel momento in cui ci si accorge che si sta tirando una fune che scampare nel vuoto, forse, sarebbe giusto mollare la presa. Eppure, ci sono fatti in cui “mollare equivale a fallire, mentre continuare a fallire significa continuare a tentare”.
Come in tutto, le reazioni seguono le azioni e sono proporzionate agli eventi.
Nel momento in cui l’amore finisce è meglio lasciar andare, ma quando scompare un bambino, quand’è giusto smettere di cercare?

Sarà difficile recensire The Missing, serie tv del 2014 prodotta da Regno Unito, Stati Uniti e Belgio (BBC One) e andata in onda su Starz in America e Giallo in Italia, finendo poi su Amazon Prime Video. Parliamo di 2 stagioni da 8 puntate l’una, con ben 60 minuti a episodio, che raccontano la quotidianità delle famiglie lasciate in sospeso dalla giustizia e dagli eventi: infatti, la serie tratta due casi di scomparsa che ricordano vagamente quelli reali della bambina inglese, Madeleine McCann e della giovane ragazza austriaca, Natascha Kampusch. Ovviamente, nonostante si tratti di una serie antologica, la recensione sarà cumulativa.

La tv tradizionale, quella che esula da Netflix, Amazon e altri servizi streaming a pagamento, ha smarrito da tempo la propria identità, fatta di varietà in prima serata e signorine cin-cin. Le reti si sono riempite di film e telefilm di dubbio gusto, comprati a buon prezzo, talk show in cui si è capaci di discutere sul niente e poi lei, la rivelazione degli ultimi anni: la tv del dolore. Rimestando nel torbido, alcune trasmissioni si nascondono dietro l’informazione per poter raccattare lo share fatto da voyeur col pallino del mistero. Eppure, c’è chi fa informazione e servizio pubblico, rendendosi utile e a volte, determinante nelle indagini: Chi l’ha visto (?). Il programma di Rai 3 è l’unico appiglio delle famiglie sospese e per certi versi, l’ultimo baluardo di decenza televisiva, perché anziché parlare e mostrare, si adopera. E’ grazie ai giornalisti di Chi l’ha visto? se la salma del boss della Banda della Magliana, Enrico de Pedis, è stata spostata dalla Basilica di Sant’Apollinare, dov’era inspiegabilmente sepolta. E’ sempre grazie a loro, e alla loro dedizione, che si è arrivati alla verità sulla scomparsa di Elisa Claps, finita nel nulla per diciassette anni e ritrovata nel 2010 nella soffitta della Chiesa della Santissima Trinità: il luogo in cui era scomparsa nel lontano 1993. La squadra di Chi l’ha visto? è quella che continua a dare voce a chi viene dimenticato dalla giustizia (che no, non è uguale per tutti), dalla stampa (sempre alla ricerca di un nuovo scoop) e della massa (che assiste ai casi di scomparsa con lo stesso spirito con cui ci si siede al cinema, convinti di uscire dalla sala con la verità in mano).
The Missing non offre nulla di nuovo a chi è abituato ad ascoltare le voci di chi è alla ricerca del proprio padre o del proprio figlio da dieci, quindici, venti anni. Eppure, emoziona. Ci riesce nonostante tutto.

Ispirandosi a casi noti, The Missing racconta la quotidianità delle famiglie che hanno subìto la scomparsa di un congiunto e per essere precisi, di un bambino. Nella prima stagione, il telefilm imbastisce una trama che ricorda la scomparsa della piccola Maddie McCann: una famiglia inglese in viaggio all’estero e che, durante una sera di divertimento e goliardia, vede sparire la propria bambina nel nulla. Nel 2007, i genitori di Maddie erano a Praia da Luz, in Portogallo, mentre in The Missing, Tony Hughes (James Nesbitt; Match Point, 2005; Il cammino per Santiago, 2010; Lo Hobbit – La trilogia, 2012) e sua moglie Emily (Frances O’Connor; A.I. – Intelligenza artificiale, 2001; Once Upon a Time 2011; The Conjuring, 2016) sono a Châlons du Bois, nell’estate del 2006. Le strade sono addobbate a festa perché la nazionale francese è in finale contro l’Italia e c’è parecchia allegria in città: proprio quella sera, il piccolo Ollie Hughes (Oliver Hunt) scompare nel nulla. Alternando la realtà odierna, che vuole il caso ormai archiviato, ai flashback riguardanti le giornate di ricerca successive alla scomparsa, la serie mette in risalto il dolore del singolo e la conciliazione di questo nella coppia.
La bellezza della prima serie, che conta anche alcuni difetti non del tutto trascurabili, è la capacità di mettere in risalto i diversi modi di reazione al dolore e il loro relazionarsi, facendosi voce di un disperato appello all’empatia. Di fronte alla sofferenza, alcuni soggetti reagiscono mettendo il cuore in soffitta, custodendo quel malessere in una scatola sepolta sotto nuovi ricordi e questo è il caso del personaggio della signora Hughes, che appare distrutta nel momento in cui Ollie scompare e rifiorisce nel presente, in una nuova realtà. Il signor Hughes, invece, interpretato da uno straordinario James Nesbitt (e definirlo tale è decisamente riduttivo), rimesta nel passato, corre dietro ai fantasmi e non si da pace, restando bloccato a quel giorno, smanioso di scoprire la verità.
Il giallo non è solidissimo, soprattutto nel finale, che appare debole e quasi banale, ma per assurdo non è questo il motivo per cui vedere la prima stagione di The Missing. Infatti, in modo del tutto inconsapevole (si suppone), il racconto sposta il proprio focus dalla narrazione vera e propria alla riflessione che l’interazione tra i personaggi genera. Gli stati d’animo di Tony ed Emily, così come il loro modo di reagire e affrontare la sofferenza, danno uno spunto riflessivo degno di nota: la serie sembra chiedere allo spettatore di vestire veramente i panni dell’altro, di immedesimarsi in lui al punto comprendere il suo dolore, ricordare i suoi ricordi, soffrire per i suoi dispiaceri e muoversi, agire secondo le sue abitudini. Questa è vera empatia. Nel momento in cui The Missing fa questa richiesta, i personaggi degli Hughes mostrano le conseguenze della mancata condivisione, ossia, ciò che viene dopo aver negato la comprensione all’altro. Dopo c’è divisione, abbandono, altro dolore ed è questo il messaggio che (inconsapevolmente) giunge da The Missing, che con molta probabilità voleva limitarsi a raccontare una storia drammatica e invece si ritrovata a fare un appello disperato alla condivisione, all’umanità dell’uno verso l’altro.
A margine, ma neanche tanto, c’è il detective Julien Baptiste (Tchéky Karyo; La spiata, 1983; Nikita, 1990; Va’ dove ti porta il cuore, 1996; Il patriota, 2000; Il nome della rosa, 2019), che ricopre il ruolo dell’attempato agente infaticabile e anche infallibile. Presentato come cliché narrativo e presente in entrambe le stagioni di The Missing, il personaggio di Baptiste appare marginale nella prima e decisivo nella seconda, al punto di guadagnarsi uno spin-off omonimo tutto suo, che a novembre 2020 non è ancora giunto in Italia. Giustamente, o forse un po’ a caso, come la prima impressione fa pensare, Baptiste funge da composto supporto a Tony Hughes, che da regge da solo l’intera struttura drammatica della prima stagione.
Il finale, che appare oggettivamente banale e manchevole in qualche punto, viene totalmente ripagato dal fortissimo impatto drammatico e come detto in precedenza, dalla stupenda interpretazione di James Nesbitt.

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La seconda stagione di The Missing sposta l’ambientazione della storia in Germania, continuando però a coinvolgere Francia e Inghilterra. Ispirandosi alla scomparsa e alla lunga prigionia di Natascha Kampusch, rapita e tenuta prigioniera da Wolfgang Přiklopil per circa otto anni, la serie guarda anche ai fatti di cronaca che riguardano Gary Heidnik, che negli anni ’80 sequestrò, violentò e torturò sei giovani donne, con lo scopo di creare una famiglia grande e numerosa.
Nelle otto puntate conclusive, la serie BBC racconta il mistero di Alice Webster (Abigail Hardingham), che ricompare inspiegabilmente a 11 anni dalla sua sparizione: in gravi condizioni di salute e malnutrita, la ragazza riconosce il suo carceriere e sembra ricomporre la propria famiglia, andata in pezzi dopo la sua sparizione. Sam Webster (David Morrissey; Basic Instinct 2, 2006; L’altra donna del re, 2008; The Walking Dead, 2012; Good Omens; 2019) è un generale dell’esercito, rude e pratico, che non ha mai accettato la scomparsa della figlia; mentre sua moglie Gemma (Keeley Hawes; Funeral Party, 2007; Il seggio vacante, 2015), dopo un primo momento di dolore e disperazione, ha saputo reagire e andare avanti. Anche Matthew (Jake Davies), il fratello di Alice, è passato oltre, ma andando a impelagarsi in guai sempre più grandi. Nel momento in cui la ragazza torna a casa, qualcosa sembra non tornare e Baptiste che, malato di cancro, si reca in Germania per sostenere il collegamento tra la sparizione di Alice Webster e quello di Sophie Giroux, una cittadina francese.
Con la seconda stagione, gli autori mettono in scena un “pasticciaccio brutto“: una trama confusa, a volte stiracchiata, a tratti incomprensibile a causa dei troppi salti temporali. Infatti, la vicenda viene raccontata mischiando vari livelli di passato e vari livelli di presente, che si intrecciano senza alcun motivo e indicazione, confondendo lo spettatore che si ritrova a doversi affidare ai tagli di capelli dei personaggi per capire se si tratta dei momenti subito successivi alla scomparsa di Alice, quelli del suo ritrovamento (avvenuto ben 11 anni dopo) e quelli della risoluzione del caso (nel presente, 2 anni dopo il la ricomparsa della ragazza). Come se non bastasse, si aggiungono altri stralci di memoria dei protagonisti, alcuni risalenti alla Guerra del Golfo. Insomma, un gran casino che gli autori non hanno saputo gestire.
C’è qualcosa di positivo nella seconda stagione di The Missing? Sì, l’emozione; ma stavolta non basta.
Nonostante il personaggio di Baptiste cresca al punto di essere riconosciuto come protagonista assoluto della serie (infatti è proprio con lui che lo spettatore sviluppa maggiore empatia), i personaggi secondari non riescono a lasciare il segno. Nel caso di Alice, unica capace di suscitare un qualche tipo di emozione, si tratta di emozioni del tutto negative, di fastidio e incertezza. Neanche la presenza di David Morrissey (il Governatore in The Walking Dead) riesce a scatenare qualche reazione degna di nota: la caratterizzazione piatta e uniforme dei personaggi fa sì che questi siano del tutto sorpassabili, sostituibili, dimenticabili.
Il finale stupisce poco, ma emoziona assai, perché questa sembra essere l’unica costante di The Missing: non si riesce mai a centrare i punti fondamentali del genere giallo, ma le emozioni si colpiscono sempre, tutte.

Sara C.

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