Film: Lo spaventapasseri (1973)

Andare in fissazione con i vecchi film anni ’70 è qualcosa che non mi sarei mai aspettata dalla sottoscritta, vista la mia gravissima Sindrome del Pippone. Per i comuni mortali, tale malessere si manifesta in prossimità di apparecchiature televisive che trasmettono materiale -inspiegabilmente- osannato dal grande pubblico, ossia quello che genera sovraeccitazione per due battute supersimpa e qualche effetto speciale alla Renè Ferretti. La sindrome porta a soffrire di sbuffi compulsivi, smadonnamenti alla veneta e una diuresi eccessiva nel soggetto che si assenta spesso durante la visione di particolari film e telefilm. Questi sono frequentemente ad alto budget, con attrici/attori cani ormai onnipresenti, colonna sonora alla Rocky Balboa dopo che ha preso gli schiaffi, ma soprattutto, l’immancabile trama ban-anale: prevedibile, scontata, insignificante, imbottita di emozioni ogm a buon mercato e pari a un frutto giallo e lungo spinto a forza tra la guance del cu*o. Parliamo di prodotti come Il Gladiatore, Mission Impossible, Alexander, Avatar e tanti altri film con A che mi trattengo dal citare solo perché “tengo famiglia”.
Dopo aver visto un documentario su YouTube, mi sono ritrovata a scorrere la filmografia di Al Pacino, attore che adoro soprattutto per i ruoli di inizio carriera, e mi imbatto in una collaborazione con Gene Hackman, che invece non mi convince proprio a causa dei ruoli di inizio carriera. Trovo il trailer de Lo Spaventapasseri, conosciuto e apprezzato dalla critica al punto di vincere il Festival di Cannes, e mi convinco a vederlo. La Sindrome del Pippone è in agguato, ma sparisce subito, come per magia.

Lo Spaventapasseri (Scarecrow) è un film drammatico del 1973 diretto da Jerry Schatzberg e interpretato da Gene Hackman e Al Pacino. Il primo era già affermato e veniva dal grande successo de Il braccio violento della legge di William Friedkin, pellicola osannata anche grazie all’interpretazione dello stesso Hackman, mentre il secondo era poco più che uno sconosciuto, nonostante avesse appena girato Il Padrino di Francis Ford Coppola: quest’ultimo impose alla produzione l’esordiente Pacino, rifiutando attori del calibro di Jack Nicholson e Robert Redford.
In quell’anno, la carriera dell’attore di origine italiana ebbe una svolta, perché raccolse i frutti della collaborazione con Coppola, portò in scena la vita dell’agente Frank Serpico e vinse la Palma D’Oro al Festival di Cannes proprio con Lo Spaventapasseri. In quest’ultimo lavoro, malgrado fosse la coppia ad esserne protagonista, è la figura di Al Pacino ad emergere, perché è suo il punto di vista più intimo dell’intera storia. Il film ne trae giovamento, perché l’attore viveva uno stato di grazia artistico visibile e straordinariamente illuminante, capace di dare spessore emotivo incalcolabile a una vicenda in apparenza folle.

Max e Lion sono due autostoppisti nel bel mezzo del nulla. Il primo sembra un ragioniere caduto in disgrazia, che pur mantenendo la dignità del contabile attende un passaggio in una strada sperduta; il secondo somiglia a uno scappato di casa, con la sacca in spalla e un bizzarro pacchetto regalo tra le mani. Max viene da sei anni di prigione ed è intenzionato ad aprire un autolavaggio a Pittsburgh, dove dice di aver messo da parte una discreta somma di denaro, mentre Lion vuole andare a Detroit per incontrare il figlio per la prima volta.
La considerazione che fa lo spettatore leggendo la trama è prevedibile: due vite diverse, un uomo litigioso e diffidente, l’altro spensierato ed emotivo, che si incrociano per vivere insieme un’avventura insolita. Per certi versi è così, perché il viaggio per Pittsburgh è intervallato da soste più o meno lunghe, necessarie, ma anche piacevoli o del tutto drammatiche.
La tappa a casa di Coley e Frenchy garantisce ristoro, protezione e permette allo spettatore di notare i venerdì mancanti del simpatico Lion e le tecniche seduttive non propriamente romantiche di Max. Invece, il capitolo dedicato alla prigione tocca temi più delicati, come quello della corruzione della polizia (già affrontato da Pacino in Serpico), del bullismo nelle carceri e quello appena accarezzato dell’omosessualità: in un periodo storico in cui la comunità LGBT non aveva lo spazio e la considerazione che ha oggi -purtroppo, mai giustamente alla pari-, è insolito trovare un film così datato e così poco interessato a scadere nel facile bigottismo.

Nonostante il carattere burbero di Max, la dolcezza di Lion riesce a unire due persone apparentemente inconciliabili. Il sodalizio economico è marginale, perché l’autolavaggio in società diventa una chimera utile a motivare il viaggio della speranza, mentre è il legame umano a diventare preponderante, per la sincerità e l’emotività con cui lo si porta avanti.
Hackman e Pacino sembrano dei moderni Stanlio e Ollio che si rinfacciano i guai a vicenda, ma che poi si spalleggiano e tornano a salvarsi nei momenti più cupi delle rispettive esistenze. La loro interpretazione rende vivo e adorabile un soggetto particolare, da cui è difficile tirare fuori qualcosa di diverso dalla miseria e dalla superficialità apparente. Parliamo di due personaggi che in Toscana verrebbero chiamati “grulli“, ossia i pazzerelli di paese, quelli con le idee bizzarre e i ragionamenti un po’ strampalati, perché questi sono Max e Lion: il primo pensa di ricominciare dopo svariati anni di galera, mentre il secondo crede che una lampada possa cancellare cinque anni di assenza.
La verità è che, nonostante una trama in apparenza incentrata sulle peripezie occorse ai due uomini, l’interpretazione e la regia fanno emergere ciò che il soggetto aveva seminato qua e là: la disperazione di due uomini soli, che hanno sbagliato tutto e che si attaccato a un sogno per poter sopravvivere nel presente. La profondità c’è, ma è così delicata e discreta da palesarsi solo quando realmente necessario: si manifesta in primi piani ingegnosi, in pause e sguardi strategici e in una conclusione tragica ed emozionante.

Il film è la cronaca dell’insolita avventura compiuta da due soggetti del tutto bizzarri e quindi, i primi tre quarti d’ora possono apparire strampalati e tecnicamente poco ricchi. La verità è che, visto nel complesso, Lo Spaventapasseri è vera una perla: non brilla come un diamante, non infuoca come un rubino e non è regale come uno smeraldo, ma è lo scarto di qualcosa di sterminato e intenso. Mare o anima che sia.
Lo spettatore viene calato nella quotidianità di due personaggi segnati dal loro passato, dai loro stessi errori e dalle difficoltà della classe operaia degli anni ’70, per non parlare degli innumerevoli problemi che si alternano durante il viaggio per Pittsburgh. Il punto è che il soggetto di Garry M. White, la regia di Schatzberg e l’interpretazione della coppia Hackman/Pacino riescono ad attingere da tutto ciò per tirare fuori una perla deliziosa, delicata ma sostanziosa; mai sopra le righe, di un’emotività garbata e sentita. Lo Spaventapasseri è un film straordinariamente sensibile, che merita tutti i riconoscimenti ottenuti.

Sara C.

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